Coronavirus: cosa rischio se faccio una passeggiata? Obblighi e reati

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Il Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 9 marzo 2020 (hinc “il D.P.C.M.”) ha esteso a tutto il territorio dello Stato le misure urgenti di contenimento del contagio da COVID-19 (c.d.Coronavirus) previste dall’art. 1 del D.P.C.M. del giorno precedente.

Quest’ultimo presenta anche un profilo penalistico, che è scolpito dall’art. 4, secondo comma, secondo cui «Salvo che il fatto costituisca più grave reato, il mancato rispetto degli obblighi di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’articolo 650 del codice penale, come previsto dall’art. 3, comma 4, del decreto-legge 23 febbraio 2020, n. 6 » .

L’art. 650 c.p., rubricato “Inosservanza dei provvedimenti dell’autorità”, prevede, che «Chiunque non osserva un provvedimento legalmente dato dall’Autorità per ragione di giustizia o di sicurezza pubblica, o d’ordine pubblico o d’igiene, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda fino a euro 206».

Ci troviamo quindi al cospetto di reato classificato come “contravvenzione”, che viene punito con l’arresto e/o con l’ammenda (art. 39 c.p.). Si tratta allora di una particolare specie di reato punita in maniera più tenue rispetto ai “delitti”, sanzionati invece con l’ergastolo, reclusione e/o multa, e per la cui sussistenza non è necessaria la presenza dell’elemento psicologico del “dolo”, ma è sufficiente quantomeno la “colpa”, che si configura quando il reato è stato commesso per  “negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline”. Inoltre, è opportuno non confondere la pena dell’arresto – misura limitativa della libertà personale – con l’arresto in flagranza, privazione provvisoria di libertà (temporanea e pre-cautelare) la cui applicazione è di competenza della Polizia Giudiziaria e delle Forze dell’Ordine.

Occorre però fare attenzione alla presenza della “clausola di riserva” – “se il fatto non costituisce un più grave reato” – prevista all’interno della formulazione dell’art. 650 c.p., la quale comporta l’applicazione del cennato reato contravvenzionale soltanto se la condotta dell’agente non integra un reato “più grave”, ossia punito con cornici edittali superiori o con pene differenti e più gravose.

Quali sono gli obblighi imposti dal D.P.C.M c.d. Coronavirus la cui violazione comporta commissione del reato?

L’art. 1, comma primo, del D.P.C.M. 8 marzo 2020 (d’ora in poi, il “Decreto coronavirus”) ce li indica:

  • evitare ogni spostamento, salvo che sia motivato da «comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità» o da «motivi di salute»  ex art. 1, comma 1, lett. a) del Decreto;
  • è fortemente consigliato a chi ha sintomi compatibili con il virus o la febbre oltre 37,5 ° C di restare presso il proprio domicilio e di limitare al massimo i contatti sociali, contattando il proprio medico curante, ex art. 1, comma 1, lett. b) del Decreto ;
  • vi è divieto assoluto per chi è sottoposto alla misura della quarantena o ha contratto il virus di uscire di casa, ex art. 1, comma 1, lett. c) del Decreto ;
  • sospensione di tutte le attività di vendita al dettaglio, dei servizi di ristorazione e di cura della persona, con alcune limitate eccezioni, ex art. 1 del D.P.C.M. 11 marzo 2020.

In particolare, “comprovate” significa “dimostrabili”, ad esempio ostentendo lo scontrino della farmacia o del negozio di alimentari; riguardo le “esigenze lavorative”, è necessario poter provare di esercitare una attività lavorativa autonoma o dipendente.

In seguito all’entrata in vigore del D.P.C.M. 22 marzo 2020, è stato prescritto l’ulteriore divieto “a tutte le persone fisiche di  trasferirsi  o spostarsi, con mezzi di trasporto pubblici o privati,  in  un  comune diverso rispetto a quello in cui attualmente si  trovano,  salvo  che per comprovate esigenze lavorative, di assoluta  urgenza  ovvero  per motivi di salute;

Le conseguenze della violazione degli obblighi previsti dal Decreto c.d Coronavirus sono l’applicazione della pena dell’arresto fino a tre mesi o  dell’ammenda fino a 206 euro.

La Procura di Milano, però, ha dichiarato che è configurabile un reato più grave dell’art. 650 c.p., previsto dall’art. 260 del Testo Unico delle Leggi Sanitarie (hinc: T.U.L.S) a mente del quale:

Chiunque non osserva un ordine legalmente dato per impedire l’invasione o la diffusione di una malattia infettiva dell’uomo e’ punito con l’arresto fino a sei mesi e con l’ammenda da lire duecento a quattromila. Se il fatto e commesso da persona che esercita una professione o un’arte sanitaria la pena e’ aumentata.

Pur essendo una contravvenzione, questa fattispecie di reato non è oblabile (estinguibile con il pagamento di una somma di denaro) in quanto è prevista l’applicazione congiunta della pena detentiva e pecuniaria; l’art. 162 bis c.p., infatti, prevede la possibilità dell’estinzione di una contravvenzione solo quando questa  è punita alternativamente con l’arresto o con l’ammenda.

Quindi, se l’Accusa contestasse l’art. 260 del T.U.L.S, non sarebbe possibile estinguere il reato attraverso il pagamento di una somma di denaro, e si instaurerebbe un procedimento penale tout court.

Accertamento della violazione Decreto Coronavirus: quando devo pagare?

Queste sanzioni, è bene chiarire, non possono essere applicate, né determinate, né riscosse direttamente dalle forze dell’ordine : il Pubblico Ufficiale dovrà semplicemente trasmettere la notizia di reato alla Procura della Repubblica (art. 347 c.p.p.), che iscriverà un procedimento penale a carico del trasgressore;  solo al termine del processo e in caso di condanna, il Giudice (la competenza è del Tribunale monocratico) determinerà se applicare la pena dell’arresto o della ammenda e in quale misura, rispettando le cornici edittali previste dall’art. 650 c.p.

Coronavirus: devo pagare subito?

È comunque possibile estinguere il reato attraverso l’istituto dell’oblazione, previsto dagli artt. 162 bis c.p., che consiste nel pagamento, prima dell’apertura del dibattimento, ovvero prima che il decreto penale di condanna diventi definitivo, di una somma corrispondente alla metà del massimo dell’ammenda (nel caso di specie, € 103, oltre le spese del procedimento). L’estinzione del reato, però, è subordinata al potere discrezionale del Giudice che può respingere la domanda di oblazione “avuto riguardo alla gravità del fatto” (art. 162 bis, comma 4, c.p.).

Per la definizione di tali illeciti è prevedibile da parte della Procura l’utilizzo del procedimento per decreto penale di condanna (procedimento a dibattimento eventuale, previsto dagli artt. 459 – 464 c.p.p.); in questo procedimento Pubblico Ministero esercita l’azione penale chiedendo al Giudice per le Indagini Preliminari, l’applicazione di una pena pecuniaria (anche frutto della conversione di quella detentiva in pecuniaria ai sensi della L. 689/1981). Ove l’indagato (o il suo legale) non opponga – entro 15 giorni dalla notificazione del decreto penale – questo provvedimento quest’ultimo diventerà definitivo.

Ciò comporta che il provvedimento costituirà titolo per l’esecuzione della condanna al pagamento di una somma di denaro nonché costituirà precedente giudiziario in tutto equiparato ad una sentenza di condanna che sarà annotata nella fedina penale (casellario giudiziale), costituendo dunque un precedente, seppur generalmente non menzionata nei certificati richiesti dai privati (175 c.p.).

Resta traccia dell’oblazione nella fedina penale?

L’art. 162 bis c.p. permette l’estinzione del reato con conseguente non iscrizione nel casellario giudiziale della sentenza che, in accettazione della domanda di oblazione, dichiara l’estinzione del reato.

Tuttavia, a differenza dei reati oblabili ex art. 162 c.p., ove la domanda di oblazione venga rigettata, il provvedimento giudiziario di condanna all’ammenda o all’arresto verrà iscritto nel casellario giudiziale ai sensi dell’art. 3 lett. a) del D.P.R. 14 novembre 2002: “Nel casellario giudiziale si iscrivono per estratto: a) i provvedimenti giudiziari penali di condanna definitivi, anche pronunciati da autorità giudiziarie straniere se riconosciuti ai sensi degli articoli 730 e seguenti del codice di procedura penale, salvo quelli concernenti contravvenzioni per le quali la legge ammette la definizione in via amministrativa, o l’oblazione limitatamente alle ipotesi di cui all’articolo 162 del codice penale, sempre che per quelli esclusi non sia stata concessa la sospensione condizionale della pena”

Quali rischi penali in caso di falsità nell’autocertificazione del modulo previsto per il Coronavirus?

In virtù della clausola di riserva dell’art. 650 c.p. “se il fatto non costituisce un più grave reato”, la condotta di chi esibisce ad un Pubblico Ufficiale un’autocertificazione falsa circa le esigenze che giustificano il suo spostamento (a mente dell’art. 1, comma 1, lett. a) del Decreto), deve essere motivato «da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità» ovvero da «motivi di salute» o «rientro presso il proprio domicilio abitazione o residenza» ) non integrerà il reato previsto dall’art. 650 c.p., ma ulteriori e più gravi fattispecie di reato.

Innanzitutto, l’art. 76 del D.P.R. n. 445/2000 prevede l’applicabilità dei reati previsti dal Codice Penale e dalle leggi speciali anche alle falsificazioni di dichiarazioni sostitutive di certificazione o di atto di notorietà (artt. 46 e 47 D.P.R. n. 445/2000) commesse dai privati. Pertanto, sarà applicabile la fattispecie di reato prevista dall’art. 483 c.p., che punisce con la reclusione fino a due anni Chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”. Nel caso in cui, invece, la falsità riguardi le qualità personali del dichiarante, è configurabile il (più grave) reato previsto dall’art. 495 c.p., rubricato “Falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri”, che punisce la condotta di «chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona» con la reclusione da uno a sei anni; orientamento recente della Suprema Corte di Cassazione (Cass. Pen., Sez. V, Sent. 05/03/2019 n. 19695) estende e ricomprende nella nozione di “qualità personali” anche la professione, l’ufficio pubblico ricoperto et similia: quindi, chi viola il divieto di spostamento adducendo falsamente di spostarsi per “esigenze lavorative” attribuendosi delle qualifiche professionali inesistenti, rischia di integrare il più grave reato previsto dall’art. 495 c.p., piuttosto che quello di cui all’art. 483 c.p.

Riassumendo, la violazione degli obblighi prescritti dal Decreto ha come conseguenza l’integrazione del reato contravvenzionale previsto dall’art. 650 c.p., (punito con arresto fino a tre mesi o l’ammenda fino a 206 euro) che però può essere estinto attraverso l’oblazione, come detto, il pagamento di una somma di denaro.

Dichiarare il falso nell’autocertificazione, invece, comporta l’applicazione delle ben più gravi pene previste dai reati previsti dagli artt. 483 e 495 c.p., (il primo punito con reclusione fino a due anni, il secondo con la reclusione da uno a sei anni) che non possono essere estinte con l’oblazione e che determinano l’avvio di un processo penale tout court.

 

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